Francesco Gori viene dalla sua prima stagione in veste da dirigente, da Direttore Sportivo della Petriana Roma, posizione che ha lasciato, come vedremo nel corso dell’intervista, poco prima che il problema COVID-19 diventasse un enorme problema per l’Italia e il mondo intero. Francesco è uno dei nomi di spicco del basket romano, che ha girato lo Stivale in lungo ed in largo nel corso della sua lunga carriera (nell’ordine, dal 2003/04, La Maddalena, San Severo, Gualdo Tadino, Chieti, Recanati, Termoli, Ancona, Orvieto, Viterbo, Eurobasket Roma, Vis Nova Roma e Petriana) e che, assieme ad alcuni amici, ha deciso di dedicarsi alle nuove generazioni, fondando la Niuppy, società di minibasket e basket giovanile. La redazione di Tuttobasket.net ha avuto il piacere di conversare a lungo con Francesco.
Francesco, come hai vissuto il periodo di quarantena?
“Molto pesante. Nel senso che sono stato a casa con la mia famiglia, ovviamente; ma a me stare chiuso tra quattro mura pesa. Soprattutto con le mie due figlie preferisco uscire all’aria aperta, a giocare. Quindi ho sofferto molto questa quarantena. A differenza di tanti altri, a me la vita che facevo prima, in palestra con i ragazzi, con i quali abbiamo continuato con gli allenamenti online, o anche il semplice uscire fuori con le mie figlie, piaceva tanto. La fortuna, nel nostro caso, è stata quella di poter disporre di un buon spazio condominiale, nel quale far scendere le mie figlie. Ma ripeto, dal punto di vista personale l’ho vissuta male“.
Passiamo alla stagione della Petriana Roma, 2° a -2 dalla coppia di testa Stella Azzurra-Basket Roma al momento dell’interruzione.
“Molto positiva sicuramente. Ho contribuito alla costruzione della squadra, in sintonia con il presidente (Maurizio Zoffoli) ed il general manager (Alessio Gallicola), andando a prendere i tre senior, uno dei quali mio ex compagno di squadra (Tommaso Rossetti, ndr) mentre con gli altri due ho giocato contro svariate volte in carriera (Mattia Giannini e Pier Claudio Di Bello, ndr). Inoltre, il presidente ed il general manager hanno stretto un accordo con HSC Roma (Honey Sport City), portando tutto il blocco dei ragazzi campioni d’Italia 2019 Under 18 Eccellenza, tranne un paio di ragazzi, passati in A2. Tutta gente che ha dimostrato di starci alla grande in Serie C.
Nonostante fossimo la squadra più giovane del torneo, con il più grande dopo i tre senior del 2001, abbiamo disputato un gran campionato. Merito ovviamente anche di coach Alessandro Tonolli e dello staff, capace di gestire al meglio la squadra. Detto ciò, lo stop è stato un vero peccato. Vero, gli obiettivi di partenza erano diversi, ormai ci avevamo preso gusto ad occupare posizioni così importanti in classifica. Purtroppo è andata così…“.
Che sensazioni hai avuto in questa annata da Direttore Sportivo? Com’è maturata questa decisione?
“Allora, lo scorso anno avevo deciso che sarebbe stato il mio ultimo da giocatore; mi ero già ritirato due o tre volte, ma mi avevano sempre fatto tornare sui miei passi. Stavolta è stata una scelta definitiva. Mi hanno proposto questo ruolo in Petriana, con l’idea di seguire la prima squadra e di ristrutturare il settore giovanile, partendo dal minibasket. Abbiamo cominciato a porre le basi, almeno fino all’arrivo del Coronavirus, che chiaramente ha influito in modo negativo.
Dal punto di vista personale, invece, devo ammettere che non ho vissuto molto bene questa esperienza. Dopo 30 anni da giocatore, con esperienze come allenatore di giovanili e vice allenatore a livello senior, fare il DS e stare totalmente al di fuori della squadra durante le partite non mi ha trasmesso le sensazioni desiderate. Mi spiego: forse per una questione di abitudine, ma non sono riuscito ad avvertire come completamente mie le vittorie della squadra. Un qualcosa di strano da spiegare ma, nonostante contribuisci a tirar su la squadra, poi a bordo campo ti senti come se fossi uno spettatore, senza avvertire quel trasporto che pensavo“.
Passiamo adesso alla tua squadra giovanile Francesco, la Niuppy. Com’è nata questa idea e, in particolare, da cosa è derivata la scelta del nome? Qualche sospetto ce l’ho, e mi porta a Holly & Benji…
“Esatto, hai colto nel segno! Quattro anni fa, nel 2016, assieme al capitano dell’Eurobasket Roma, Eugenio Fanti, che conosco da tantissimo tempo, abbiamo preso questa iniziativa, volendo avere una squadra tutta nostra. Il nome e tutto il resto è venuto su con tanta goliardia, da quello della mia vecchia squadra di fantacalcio, Niuppy appunto; il logo rappresenta proprio la ‘N’ della squadra del cartone animato, mentre per i colori scegliemmo quelli dei Lakers, anche se per esigenze ‘sartoriali’ abbiamo poi virato sul blu al posto del viola. Partimmo così, quasi per scherzo, con l’idea di cominciare a lavorare se avessimo vinto un bando o fossimo entrati in qualche scuola.
Arriviamo così a gennaio 2018. Grazie a qualche conoscenza e parlando con alcune scuole private, abbiamo preso in gestione degli spazi in questi istituti, perseguendo un obiettivo battuto da pochi, soprattutto a Roma, ovvero lavorare nelle scuole meno strutturate sotto tutti gli aspetti, soprattutto per quanto riguarda la pallacanestro. Situazioni dove, a mio parere, il 90% delle società non ha interesse ad andare ad investire. In questo modo, però, noi stiamo facendo conoscere la pallacanestro nel quartiere di Pisana/Bravetta, che di base dopo il calcio viene la pallavolo; attualmente noi siamo presenti in sei scuole. Da quest’anno, poi, ci siamo uniti con un’altra società che lavora come noi e condivide la nostra stessa impostazione, la Stella del Faro, di Francesco Le Pira.
Grazie a questo lavoro, l’anno scorso ci siamo trovati con 20 ragazzi classe 2008, i quali ci hanno chiesto di continuare e, quest’anno, ci siamo iscritti al primo campionato federale, Under 13 sotto età. La nostra realtà è quella di scuole elementari e di ragazzi che, una volta usciti da lì, avrebbero quasi certamente smesso con la pallacanestro; noi invece gli abbiamo dato la continuità necessaria e l’obiettivo è di dargliela il più possibile. Noi siamo e siamo stati giocatori, quindi tutto quello che facciamo è per i ragazzi. Se poi qualcuno bravo dovesse chiederci di andare altrove, noi non avremmo problemi ad esaudire la richiesta. Noi puntiamo a diffondere il basket e possibilmente a reclutare in luoghi dove non è conosciuto; trovare casomai su 100 bambini un diamante grezzo che potrebbe diventare un futuro giocatore, che so, anche di Serie B o superiore. E sarebbe davvero figo“.
Torniamo alla Petriana. Che prospettive ci sono?
“Devo dire che, prima dell’esplosione della pandemia, ho dato le dimissioni da Direttore Sportivo. La motivazione principale in questa mia decisione risiede nella crescita della Niuppy e facevo fatica a seguire entrambe. Detto ciò, la società Petriana è una società storica di Roma, ben strutturata e c’è l’idea, dove possibile, di continuare a collaborare con il settore giovanile, casomai mandando qualche nostro ragazzo da loro“.
Adesso, Francesco, è il turno della tua carriera. Come ti sei avvicinato alla pallacanestro?
“Ho cominciato a giocare a pallacanestro per caso. Da piccolo, come credo la maggior parte dei bambini, giocavo a calcio; un pomeriggio ero a casa di un mio amichetto e mia mamma non poteva venirmi a prendere. Questo mio amichetto aveva gli allenamenti di basket in parrocchia, e sua mamma portò anche me; lì vidi che c’erano molti compagni di scuola e, piano piano, il mio amore per questo sport venne fuori. Elemento favorevole fu il fatto che mia mamma non voleva segnarmi a scuola calcio, così fu felicissima. Cominciai nel San Raffaele, società adesso soltanto femminile, ma che ai tempi era una realtà alquanto consolidata di Roma e che, in seguito, divenne nel 2000 l’attuale Eurobasket“.
Com’è stato, invece, il tuo approccio al basket dei grandi?
“Io ho un rimpianto nella mia carriera da giocatore, quando a 18 anni coach Paolo Di Fonzo (ex tra le altre della Virtus Roma, ndr) mi chiamò a Campli nella vecchia B2, mi pare nel 1998/99. Purtroppo andai lì che ancora non avevo la testa per fare il professionista e, dopo un mese circa, me ne tornai. In seguito uscii di casa intorno ai 22 anni e, fino ai 32-33 anni, ho fatto il professionista, pur se sempre tra Serie B e Serie C“.
C’è una tua prestazione personale o una partita in particolare che ricordi maggiormente?
“A livello di prestazione personale, direi Gara-3 della finale del campionato di Serie C del 2004 con La Maddalena, in Sardegna, partita nella quale sconfiggemmo Gualdo Tadino. Misi a referto 22 punti e qualcosa come 12 o 13 rimbalzi. La partita che invece ho sentito di più nella mia carriera fu nel 2012 con la Stamura Ancona, una Gara-2 della semifinale contro Orvieto. Premessa: se con La Maddalena vinsi il campionato, nei nove anni successivi ho perso per sette volte in semifinale di playoff, tra Serie C e Serie B. Immagina di fare il professionista e ogni anni esci in semifinale, torni a casa e stai una settimana che non riesci a capacitartene. Quella vittoria in trasferta, che ci valse la finale essendo già sull’1-0, è stata la partita che ho sentito di più; soprattutto nei minuti finali, sul +10 per noi, persi due o tre palloni in modo clamoroso per la tensione. Più della vittoria in finale, quella partita fu per me come la realizzazione di un sogno, una vera liberazione.
Da quel momento in poi praticamente si sbloccò qualcosa nella mia mente, fu come stappare una bottiglia di spumante, al punto che feci cinque promozioni di fila dalla C alla B. Dopo Ancona, vinsi il campionato ad Orvieto (2012/13), poi a Viterbo (2013/14) e quindi con la Vis Nova Roma (2015/16, con Coppa Italia Serie C), dopo che l’anno prima mancammo la promozione in A2 con l’Eurobasket Roma, perdendo in finale. Nel 2016/17 retrocedemmo con la Vis Nova dalla Serie B, l’unica retrocessione della mia carriera, rivincendo però la Serie C nel 2017/18. Detto tra noi, se queste cinque Serie C le avessi vinte ad inizio anni 2000, probabilmente avrei guadagnato il doppio. Ma vabbé…“.
Tra tutte le stagioni che hai vissuto, qual è stata la migliore a tuo parere?
“Probabilmente, parlando di statistiche, l’anno a Chieti in Serie C, dove risultavo il migliore del campionato. Peccato che perdemmo in semifinale… Se invece parliamo della stagione che ho vissuto meglio in assoluto, dico quella con la Stamura Ancona. Eravamo partiti per cercare di arrivare ai playoff con una squadra di tutti ragazzi e solo due senior; poi arrivò Óscar Chiaramello (argentino con trascorsi anche in Serie A con Montegranaro, ndr), che ci diede davvero una marcia in più. Ripeto, la vittoria di quel campionato fu una vera impresa, poiché tranne noi senior tutti gli altri erano Under 19. Epica fu la finale contro Montegranaro: vincemmo Gara-1 in trasferta, davanti a 6-700 spettatori, con canestro allo scadere; perdemmo invece malamente Gara-2 in casa, davanti a circa 4.000 spettatori; quindi, la spuntammo nella decisiva Gara-3, ancora a Montegranaro e davanti ad un palazzetto pieno, ancora allo scadere. Ripeto, un’impresa allucinante, davvero bella“.
Una carriera lunga come la tua, Francesco, avrà presentato anche dei momenti negativi…
“Il momento più difficile fu sicuramente il primo anno in Sardegna. Ho vissuto i primi 15 giorni davvero male; non ero sicuro di voler fare quello come lavoro e mi mancava tanto lo stare a Roma, assieme agli amici e quant’altro. La Maddalena, poi, è come l’isola nell’isola, un posto particolare; poi mi sono trovato benissimo, ma all’inizio ho avuto qualche titubanza. A livello di carriera, invece, l’annata più difficile è stata la prima a Termoli. È stato il primo anno nel quale non partivo titolare e, pur avendo all’epoca circa 28 anni, di testa proprio non riuscivo ad accettarlo. Non riuscii proprio a rendere per quello che valevo“.
La pallacanestro nostrana, a causa della pandemia, vive e vivrà una fase estremamente complicata. Cosa si dovrebbe fare per evitare di uscirne con le ossa rotte?
“A mio parere, le parole d’ordine dovrebbero essere strutturarsi e programmare. Nel corso della mia carriera, vissuta come detto tra B e C, sono sempre stato in squadre dove bene o male giravano soldi. Il problema è che quelle cifre erano disponibili per una, massimo due stagioni. Società con budget da 300.000 euro con i quali andare all-in su una singola annata, per poi sparire in quella successiva; si guarda solo all’immediato. Per come la vedo io, le società dovrebbero trasformarsi in aziende, possibilmente eliminando la figura del ‘presidente-padrone’, casomai il tipico imprenditore di quartiere (o di città) che mira alla politica e che spende somme ingenti senza senso, trattando la squadra come un giocattolo personale. Le società dovrebbero essere in grado di reggersi da sole, dove il bilancio di fine anno o è in parità o è in attivo.
Così facendo il movimento crescerebbe, poiché si investirebbe di più su allenatori e staff, oltre che sui settori giovanili. Un esempio: per me non è pensabile che società, anche di B, ripartiscano un ipotetico budget di 300.000 euro indirizzandone 250.000 per la prima squadra, 30.000 per le spese di mantenimento del palazzetto e i restanti 20.000 per le giovanili. Una realtà folle che, nel momento in cui lo sponsor o il presidente salutano, porta intere realtà a scomparire. Questo non succederebbe se si andasse a strutturare la società dal basso, garantendo un ‘paracadute’ nel caso si verificasse la situazione ipotizzata poco prima. Il classico ‘non fare il passo più lungo della gamba’. Ed è quello che, pur nel nostro piccolo ed occupandoci solo di giovanili, stiamo provando a fare alla Niuppy. Ma è un discorso estremamente complesso, nel quale gioca molto anche il fatto di avere spesso gente non competente o non abbastanza formata nelle posizioni che contano di una società“.
Concludiamo con ‘The Last Dance‘, un vero fenomeno mediatico a livello planetario. Che opinione ti sei fatto in proposito?
“Bello di sicuro, poiché mi ha fatto rivivere i miei inizi nel guardare il basket, anche se io non ero tifoso di Jordan. Per carità, lo apprezzavo, ma ho cominciato a seguire la NBA nel 1994 con gli Orlando Magic di Penny e Shaq; di partenza, quindi, tifavo Magic. Obiettivamente, mi è parso più un documentario su MJ piuttosto che su quei Bulls, con il #23 al centro di tutto. A mio parere, forse qualche aspetto è un po’ esasperato, come la sua voglia di vincere, sempre e comunque. Aneddoto personale: quando incontro un allenatore che dice di non voler perdere nemmeno a carte, per me è tutta finzione. Jordan viene fuori come uno che, se dicevi una cosa sbagliata, se la legava al dito e dopo 10 anni ti piazzava una prestazione super in faccia. Ripeto, a me pare un pochino esagerato, però probabilmente lui era sul serio così.
Aggiungo, come sottolineato da non pochi osservatori, che il povero GM, Krause, è uscito veramente massacrato, che non è stato dato il giusto spazio ad elementi come Toni Kukoc o Ron Harper, mentre altri sono stati esaltati un po’ troppo, come Steve Kerr, che ora è sicuramente un elemento molto mediatico, mentre allora rivestiva un ruolo di certo più marginale. Detto ciò, alla fine di tutto, mi viene da dire ‘magari ne facessero altri 200 di documentari del genere’. Ho sentito gente che non capisce niente di pallacanestro, che però ha visto The Last Dance e che potrebbe cominciare ad interessarsi e a seguire questo sport“.
Si ringrazia Francesco Gori per la cordialità e la disponibilità.